Scienza

La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869)

1868-1869

Da una certa qual vaga dispersione nelle numerose direzioni delle mie capacità mi protesse una determinata serietà filosofica, mai paga se non in presenza della nuda verità, e l'animo impavido, anzi addirittura propenso alle conclusioni più dure e spiacevoli. La convinzione di non poter arrivare a toccare il fondo delle cose nell'universale mi spinse tra le braccia del rigore scientifico.

Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)

Inoltre: cos’è per noi in generale una legge di natura? In sé non ci è nota, bensì soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltanto come relazioni. Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ciò che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti. Tutto ciò che di prodigioso noi ammiriamo nelle leggi di natura ed esige da noi spiegazione e potrebbe portarci a diffidare dell’idealismo, sta proprio tutto e soltanto nel rigore matematico e nell'insuperabilità delle rappresentazioni spaziali e temporali. Queste siamo noi a produrle in noi stessi e da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costretti a concepire tutte le cose soltanto sotto queste forme, allora non c’è da meravigliarsi, che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme: tutte infatti devono portare in sé le leggi del numero e il numero è proprio la cosa più prodigiosa delle cose.

David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore (Considerazioni inattuali I, 1873)

1.

Cultura è soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni vitali di un popolo. Ma il molto sapere e il molto studio non sono né un mezzo necessario della cultura né un indizio di essa, e all'occorrenza si accordano nel migliore dei modi con il contrario della cultura, la barbarie, ossia con la mancanza di stile o la caotica confusione di tutti gli stili.

8.

I nostri dotti si distinguono appena, e comunque non a loro vantaggio, dagli agricoltori che vogliono accrescere una piccola proprietà ereditata, e si affaticano solerti dal mattino sino a tarda notte a lavorare il campo, a spinger l'aratro e ad incitare i buoi. Ora Pascal ritiene in genere che gli uomini si occupino con tanta diligenza dei loro affari e delle loro scienze, solo per sfuggire in tal modo alle questioni più importanti che ogni solitudine, ogni vero ozio porrebbe loro con urgenza, le questioni appunto del perché, del da dove, del verso dove. Ai nostri dotti non viene neanche in mente, cosa strana, la questione più immediata: a che cosa serva il loro lavoro, la loro fretta, la loro dolorosa frenesia. Non forse a guadagnarsi il pane o a procacciarsi cariche onorifiche? No, no davvero. Eppure vi affannate come chi vive nell'indigenza e ha bisogno di pane, anzi strappate via le vivande dal tavolo con tanta avidità, senza scegliere, come se steste per morire di fame.

Ma se voi, come uomini di scienza, vi comportate con la scienza al modo in cui gli operai si comportano con i compiti che l'indigenza e le necessità della vita impongono loro, che cosa accadrà a una cultura che proprio di fronte a una scientificità così agitata, senza fiato, che corre, anzi si dibatte qua e là, è condannata ad attendere l'ora della sua nascita e della sua liberazione? Già, per essa nessuno ha tempo eppure, a che serve innanzitutto la scienza, se non ha tempo per la cultura? Dunque rispondeteci almeno su questo punto: da dove, verso dove, a che scopo tutta la scienza, se non deve condurre alla cultura? Allora forse condurrà alla barbarie! E in questa direzione già vedremmo spaventosamente addentrata la classe dei dotti, se potessimo pensare che libri tanto superficiali come quello di Strauss soddisfino il suo attuale livello di cultura. Giacché proprio in esso troviamo quel rivoltante bisogno di riposo e quel compromesso occasionale, che ascolta solo a metà, con la filosofia e la cultura, e in generale con ogni serietà dell'esistenza. Ci vengono in mente le riunioni di società delle classi colte, che testimoniano anch'esse, quando il discorso specialistica si spegne, soltanto stanchezza, voglia di distrarsi a ogni costo, memoria frammentaria, sconnessa esperienza di vita.

Con quale lanterna si dovrebbero cercare qui uomini che fossero capaci di scendere nel profondo dì se stessi, e avessero tanto coraggio e tanta forza da evocare demoni che sono fuggiti dalla nostra epoca? A osservare dall'esterno, in quei luoghi certo si trova tutto il fasto della cultura; con il loro sfoggio imponente essi somigliano agli arsenali, con i loro enormi cannoni e i loro strumenti di guerra: vediamo preparativi e solerte attività, come se si dovesse dar l'assalto al cielo ed estrarre la verità dal pozzo più profondo, eppure a volte in guerra le macchine più grandi sono quelle che si usano peggio. E così la vera cultura nella sua battaglia lascia da parte quei luoghi, e sente col migliore istinto che lì per essa non c'è niente da sperare e c'è molto da temere.

Quella cultura, innanzitutto, ha impressa sul volto la soddisfazione, e vuole che nulla si cambi nello stato attuale della culturalità tedesca; soprattutto è seriamente convinta dell'unicità di tutte le istituzioni educative tedesche, in particolare dei ginnasi e delle università, non cessa di raccomandarli all'estero e non dubita un istante che grazie a questi siamo diventati il popolo più colto e competente del mondo. La cultura filistea crede in sé, e perciò crede anche nei metodi e nei mezzi che ha a disposizione. In secondo luogo, però, essa affida ai dotti il giudizio supremo su tutte le questioni di cultura e di gusto, e considera se stessa come un sempre crescente compendio di dotte opinioni su arte, letteratura e filosofia; la sua cura è costringere il dotto ad enunciare le sue opinioni, che poi essa somministra mescolate, diluite o sistematizzate al popolo tedesco come bevanda salutare.

Quel che cresce al di fuori di questi circoli viene ascoltato con scettica superficialità oppure non ascoltato, notato o non notato, sinché finalmente una voce, non importa di chi, purché costui porti rigorosamente su di sé i caratteri specifici del dotto, non si farà sentire da quei templi in cui dovrebbe albergare la tradizionale infallibilità del gusto: e da quel momento l'opinione pubblica avrà un'opinione in più, e ripeterà con eco centuplicata la voce di quel singolo. In realtà però l'infallibilità del gusto che albergherebbe in questi luoghi e in quei singoli è assai dubbia, anzi tanto dubbia che si può essere convinti del cattivo gusto, dell'assenza di pensiero e della grossolanità estetica di un dotto, sino a che costui non abbia dimostrato il contrario. E soltanto pochi potranno dimostrare il contrario.

Quanti infatti, dopo aver preso parte alla corsa affannata e precipitosa della scienza attuale, potranno in genere conservare lo sguardo coraggioso e calmo del combattente della cultura, se mai lo hanno posseduto, quello sguardo che condanna questa cosa stessa come elemento apportatore di barbarie? Perciò in futuro questi pochi dovranno vivere in una contraddizione: infatti che cosa potrebbero fare contro una fede uniforme di innumerevoli, che tutti quanti hanno fatto dell'opinione pubblica la loro patrona, e si sostengono e si appoggiano a vicenda in questa fede?

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

6.

La scienza sta alla saggezza come la virtuosità alla santificazione: essa è fredda e asciutta, non ha amore e non sa nulla di un sentimento profondo di insoddisfazione e nostalgia. Essa è tanto più utile a se stessa quanto è nociva per i suoi servi, in quanto trasferisce su di loro il proprio carattere e, per così dire, ne fossilizza l'umanità. Finché come cultura si intenderà essenzialmente l'incremento della scienza, essa passerà impietosa e fredda davanti agli uomini sofferenti perché la scienza vede ovunque solo problemi di conoscenza, e perché il dolore nel suo mondo è qualcosa di inappropriato e incomprensibile, e, al massimo, è ancora un altro problema.

Ma basta abituarsi a tradurre ogni esperienza in un gioco dialettico di domanda e risposta e in un fatto puramente intellettuale ed è strabiliante in quanto breve tempo l'uomo con un'attività del genere si inaridisca e rapidamente si riduca a un mucchio di ossa scricchiolanti. Chiunque lo sa e lo vede: come è dunque possibile che ciononostante i giovani non indietreggino inorriditi di fronte a questi uomini ossificati, e continuino ad abbandonarsi ciecamente, senza scelta e senza misura, alle scienze? Ciò non può certo derivare da un presunto «impulso alla verità»: come potrebbe infatti esistere un impulso per la conoscenza fredda, pura e priva di conseguenze!

Quali siano invece le vere e proprie forze motrici nei servitori della scienza appare anche troppo chiaramente allo sguardo spregiudicato: ed è molto consigliabile analizzare e sezionare anche gli studiosi dopo che essi stessi si sono abituati a maneggiare sfacciatamente e a scomporre tutto ciò che è al mondo, anche ciò che vi è di più nobile. Se devo esprimere ciò che penso, dirò: lo scienziato è fatto di un complicato intreccio di stimoli assai diversi, è un metallo assolutamente impuro. Si consideri, dunque, prima di tutto una forte e sempre più acuita bramosia di novità, il desiderio di avventure della conoscenza, la forza sempre stimolante del nuovo e del raro in opposizione al vecchio e noioso. A ciò si aggiunga un certo istinto dialettico per l'indagine e il gioco, il piacere del cacciatore per astute mosse volpine del pensiero, così che in realtà non si ricerca la verità ma il ricercare in sé, il piacere principale consiste nell'astuto avvicinarsi strisciando, nell'accerchiare, nell'uccidere a regola d'arte.

A questo si aggiunga ancora l'impulso alla contraddizione; la personalità vuole, contro tutti gli altri, sentire se stessa e farsi sentire; la lotta diventa piacere e il fine è la vittoria personale, mentre la lotta per la verità ne è solo un pretesto. Per una buona parte, ancora, nello scienziato è mescolato l'impulso a trovare determinate «verità», cioè per sudditanza rispetto a persone, caste, opinioni, chiese e governi dominanti perché avverte di giovare a se stesso portando la «verità» dalla loro parte. Con minor frequenza, ma tuttavia abbastanza spesso, nello scienziato si manifestano le seguenti qualità. In primo luogo, onestà e senso di semplicità, che debbono apprezzarsi moltissimo se non sono soltanto mancanza di duttilità e di perizia nella finzione, per la quale del resto occorre un certo spirito. Infatti, ovunque lo spirito e la duttilità danno molto nell'occhio, bisogna stare attenti e dubitare un p0' della rettitudine del carattere. D'altra parte, per lo più, quell'onestà è di poco valore e anche per la scienza solo di rado feconda, poiché essa è attaccata a ciò che è abituale ed è solita dire la verità soltanto a proposito di cose semplici o in adiaphoris; infatti in questo caso, corrisponde più all'accidia dire la verità che tacerla. E poiché tutto ciò che è nuovo rende necessario l'imparar daccapo, l'onestà, quando in qualche modo è possibile, rende onore all'antica opinione e rimprovera a chi annuncia il nuovo la mancanza di sensus recti. Perciò oppose resistenza alla dottrina di Copernico, perché aveva dalla sua l'apparenza e l'abitudine.

L'odio molto frequente degli scienziati nei confronti della filosofia è soprattutto odio verso le lunghe concatenazioni di concetti e la ricercatezza delle dimostrazioni. In fondo ogni generazione di scienziati ha una inconsapevole misura dell'acume permessole; ciò che va oltre questa misura è messo in dubbio e quasi utilizzato come motivo di sospetto nei confronti dell'onestà. In secondo luogo, l'acutezza dello sguardo per le cose vicine legata a una grande miopia per le cose lontane e per ciò che è generale. Il suo campo visivo è in genere molto limitato, i suoi occhi devono rimanere assai vicini all'oggetto.

Se uno scienziato vuole spostare la sua attenzione da un punto appena studiato a un altro, fa convergere tutto il suo apparato visivo su quel punto. Scompone un'immagine in vere e proprie zone, come chi adopera il binocolo da teatro per vedere la scena ed ora vede una testa ora un pezzo di costume ma non riesce ad abbracciare il tutto con lo sguardo. Non riesce a vedere mai quella singola zona nella sua connessione, ma ne rende soltanto accessibile il contesto; perciò, di fronte a tutto ciò che è generale, non ha alcuna forte impressione. Non potendolo valutare nella sua totalità, giudica, ad esempio, uno scritto da alcuni brani o frasi o errori; sarebbe indotto ad affermare che un dipinto ad olio è un selvaggio guazzabuglio di scarabocchi…

In tutti i tempi i geni e gli studiosi sono stati in conflitto. Questi ultimi vogliono uccidere la natura, sezionarla e comprenderla, i primi invece vogliono accrescere la natura con una nuova natura vivente; e così c'è un conflitto di intenzioni e di attività. Tempi del tutto felici non hanno avuto bisogno dello scienziato e non lo hanno conosciuto, epoche completamente malate e svogliate lo hanno apprezzato come l'uomo migliore e più degno, dandogli il primo posto.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

251.

Futuro della scienza. - La scienza procura molta gioia a colui che vi lavora e ricerca; ne dà invece molto poca a chi apprende i suoi risultati. Poiché, tuttavia, tutte le verità importanti della scienza dovranno gradualmente diventare ordinarie e comuni, verrà meno anche quel poco di piacere; così come noi abbiamo da tempo cessato di provar piacere nell’imparare che due più due fa quattro. Ora, se la scienza di per sé procura sempre minor gioia, e toglie invece sempre più gioia col render sospetto il lato consolante della metafisica, della religione e dell’arte, si esaurisce quella grande fonte di piacere alla quale l’uomo deve quasi interamente la sua umanità.

Una cultura superiore deve quindi dare all’uomo un doppio cervello, per così dire due camere cerebrali, una per sentire la scienza, l’altra per sentire la non scienza; adiacenti, senza interferenze reciproche, separabili, chiudibili; è un’esigenza di salute. In una zona ci sarà la sorgente di energia, nell’altra il regolatore: il calore verrà fornito da illusioni, parzialità, passioni, e con l’aiuto della scienza conoscitiva si preverranno le cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento.

Volume II

203.

L'attimo che precede la soluzione. - Nella scienza succede ogni giorno e ogni ora che uno si fermi immediatamente prima del risultato, convinto che i suoi sforzi siano stati completamente vani - simile a chi, dipanando una rete, esita nell'istante in cui essa è più vicina a sciogliersi, poiché proprio allora somiglia di più a un nodo.

205.

Aria pungente. - La cosa migliore e più sana, nella scienza come sui monti, è l'aria pungente che vi spira. - A causa di quest'aria gli uomini di spirito cagionevole (come gli artisti) scansano e calunniano la scienza.

206.

Perché i dotti sono più nobili degli artisti. - La scienza ha più della poesia bisogno di nature nobili: queste debbono essere più semplici, meno ambiziose, più sobrie, più silenziose, non così preoccupate della gloria di poi e dimentiche di sé su cose, le quali raramente appaiono agli occhi dei molti degne di un tale sacrificio della personalità. A ciò si aggiunge un'altra rinuncia della quale essi sono consapevoli: il genere della loro attività, la continua costrizione alla massima sobrietà indebolisce la loro volontà, la fiamma non viene alimentata così fortemente come nel focolare delle nature poetiche: perciò spesso esse perdono prima di queste ultime la loro maggior forza e il loro rigoglio - e, come s'è detto, sanno di questo pericolo. In ogni caso esse appaiono meno dotate perché brillano meno, e saranno ritenute da meno di quanto non siano.

215.

Morale dei dotti. - Uno sviluppo rapido e costante delle scienze è possibile solo quando il singolo non deve essere troppo diffidente per esaminare ogni calcolo e tesi altrui, in campi per lui lontani: ma a condizione che ciascuno abbia, nel campo a lui proprio, competitori estremamente diffidenti che lo sorveglino attentamente. Da questo accostamento di «non troppo diffidenti» e «estremamente diffidenti» nasce la rettitudine nella repubblica dei dotti.

Aurora (1881)

5.

Un libro del genere, un problema del genere non ha alcuna fretta; inoltre noi due siamo amici del lento, io come il mio libro...

La filologia infatti è quell'onorevole arte che da colui che la venera esige soprattutto una cosa, trarsi in disparte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento -, in quanto è un'arte e una competenza di orafi della parola, che deve compiere soltanto lavori finissimi che richiedono cautela e non raggiunge nulla, se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo essa è oggi più necessaria che mai e proprio perciò ci attira e ci affascina assai fortemente, nel cuore di un'epoca del «Lavoro», voglio dire: della fretta, dell'indecente e sudaticcia precipitazione, che vuoi «sbrigarsela» subito con ogni cosa, anche con ogni antico e nuovo libro: - essa stessa non se la sbriga così facilmente con una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè lentamente, profondamente, con riguardo e precauzione, con pensieri reconditi, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati…

La gaia scienza (1882)

12. Sul fine della scienza.

Come? II fine ultimo della scienza sarebbe quello di procurare all'uomo tanto più piacere e quanto meno dispiacere possibile? E se piacere e dispiacere fossero legati con uno spago, cosicché chi vuole avere il più possibile dell'uno debba necessariamente avere anche il più possibile dell'altro, cosicché chi voglia conoscere il giubilo che si leva nell'alto dei cieli debba anche tenersi pronto a un'angoscia mortale? E forse le cose stanno proprio così! Gli stoici almeno credevano che le cose stessero così, e coerentemente cercavano di trarre dalla vita il meno piacere possibile, per averne anche il meno dispiacere possibile (la massima «L'uomo più virtuoso è il più felice» fungeva sia da insegna per la scuola che da finezza per le persone raffinate).

Anche oggi siete di fronte a una scelta: o quanto meno dispiacere possibile, in breve assenza di dolore ― e in fondo i socialisti e i politici di tutti i partiti non potrebbero sinceramente promettere ai loro sostenitori niente di meglio ― o quanto più dispiacere possibile come prezzo per la crescita di una pienezza di piaceri e gioie raffinati e, finora, raramente assaggiati! Se vi decidete per la prima soluzione, se volete cioè reprimere e diminuire il carattere doloroso della vita, dovete allora reprimere e diminuire anche la vostra capacità di provare gioia. In realtà con la scienza si può perseguire sia l'uno che l'altro obiettivo! Forse ancora oggi essa è più nota per la sua capacità di togliere all'uomo le sue gioie e renderlo più freddo, statuario, storico. Ma si potrebbe scoprire in essa anche una grande apportatrice di dolore. E forse, in questo modo, si scoprirebbe anche l'altra faccia della medaglia, ovvero la sua incredibile capacità di far brillare nuovi mondi siderali di gioia!

123. La conoscenza è più che un mezzo.

Anche senza questa nuova passione - mi riferisco alla passione della conoscenza - la scienza sarebbe progredita: e la scienza è infatti cresciuta e divenuta adulta anche senza di lei. La buona fede nella scienza, il pregiudizio a lei favorevole da cui i nostri Stati sono dominati (un tempo lo era persino la chiesa), si basano in fondo sul fatto che quell'inclinazione, quell'impulso così incondizionati si sono manifestati in essa tanto raramente e che la scienza, per l'appunto, non è considerata passione, ma condizione e «ethos». Sì, spesso basta già l'amour-plaisir della conoscenza (curiosità), basta l'amour-vanité, l'abitudine ad essa, con l'intenzione nascosta di conseguire onori e pane; a molti basta persino, in presenza di una sovrabbondanza di ozio, di non saper fare altro che leggere, raccogliere, ordinare, osservare, riraccontare: il loro «impulso scientifico» è la loro noia.

246. Matematica.

Vogliamo introdurre in tutte le scienze la finezza e il rigore della matematica, nella misura in cui ciò è possibile, non perché crediamo che in questo modo conosceremo le cose, ma per individuare i nostri rapporti umani con le cose. La matematica è soltanto il mezzo dell'universale e ultima conoscenza umana.

344. In che misura siamo ancora devoti.

Si dice, e a ragione, che nella scienza le convinzioni non hanno alcun diritto di cittadinanza: soltanto quando decidono di abbassarsi alla modestia di un'ipotesi, di un punto di vista sperimentale e provvisorio, di una finzione normativa, si può loro concedere l'accesso e persino un certo valore all'interno del regno della conoscenza; ma sempre con la limitazione di essere sottoposte a un controllo di polizia, al controllo della sfiducia. A guardare le cose con maggiore attenzione, però, questo non significa forse che la convinzione può accedere alla scienza soltanto quando smette di essere convinzione? La disciplina dello spirito scientifico, non comincia forse col non permettersi più convinzioni?... Le cose stanno probabilmente così: rimane soltanto da domandarsi se, affinché questa disciplina possa avere inizio, non debba già essere presente una convinzione, così imperiosa e incondizionata da sacrificare tutte le altre convinzioni.

Si sa che anche la scienza si basa su una fede, perché non esiste una scienza «priva di promesse». La domanda se la verità sia necessaria deve aver ricevuto in anticipo una risposta non soltanto affermativa, ma affermativa a tal punto da esprimere questo principio, questa fede, questa convinzione: niente è più necessario della verità e, rispetto ad essa, tutto passa in secondo ordine». Questa incondizionata volontà di verità: che cos'è? E la volontà di non lasciarsi ingannare? E la volontà di non ingannare? La volontà di verità potrebbe essere interpretata proprio in quest'ultimo modo: purché la generalizzazione «non voglio ingannare» comprenda anche il caso particolare «non mi voglio ingannare». Ma perché non ingannare? Perché non lasciarsi ingannare?

Si noti che le motivazioni della prima domanda rientrano in un ambito completamente diverso da quelle della prima: non ci si vuole lasciare ingannare perché si suppone che essere ingannati sia dannoso, pericoloso, nefasto; in questo senso la scienza sarebbe una lunga astuzia, una cautela, un'utilità, alla quale si potrebbe però opporre un giusto rilievo: come? E vero che non lasciarsi ingannare sia meno dannoso, meno pericoloso, meno nefasto: che ne sapete, a priori, sul carattere dell'esistenza, per poter decidere se i vantaggi maggiori siano dalla parte di chi è incondizionatamente sfiduciato o di chi è incondizionatamente fiducioso? Nel caso però in cui siano entrambe necessarie, molta fiducia e molta sfiducia: donde potrebbe allora trarre la scienza la sua fede incondizionata, la sua convinzione, che è anche il suo fondamento, che la verità sia più importante di qualsiasi altra cosa, anche di qualsiasi altra convinzione? Proprio questa convinzione non potrebbe essere nata se verità e non-verità si fossero dimostrate costantemente come entrambe necessarie: e le cose stanno proprio così.

Ma allora la fede nella scienza, che è decisamente incontestabile, non può essere stata originata da un simile calcolo di utilità, ma semmai dal fatto che la «volontà di verità», di «verità a qualsiasi costo», si è dimostrata sempre più inutile e pericolosa. «A qualsiasi costo»: lo comprendiamo bene, se abbiamo offerto e sacrificato su questo altare una fede dopo l'altra! Di conseguenza «volontà di verità» non significa «io mi voglio lasciar ingannare» ma - non c'è altra scelta -«non voglio ingannare, neppure me stesso»: e perveniamo così sul terreno della morale. Basti infatti porsi questa domanda di fondo: «perché non vuoi ingannare?», soprattutto quando dovrebbe esservi la parvenza - e c'è questa parvenza! - che la vita sia costruita sulla parvenza stessa, voglio dire su errore, imbroglio, contraffazione, accecamento, autoaccecamento, e che d'altro canto proprio la grande forma della vita si sia sempre mostrata dalla parte dei più irriflessivi pokùtropoi. Un tale proposito potrebbe forse essere, interpretato benevolmente, un donchisciottismo, una piccola, esaltata pazzia; potrebbe però essere anche qualcosa di peggio, ovvero un principio distruttivo ostile alla vita... «Volontà di verità»: potrebbe essere una celata volontà di morte.

Così la domanda «perché la scienza?» ci riconduce al problema morale: perché mai una morale, se vita, natura, storia sono «immorali»? Non c'è dubbio che il vero, nel senso temerario e ultimo della parola presupposto dalla fede nella scienza, affermi un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e nella misura in cui esso afferma questo «altro mondo», come? Non deve di conseguenza negare il suo contrario, questo mondo, il nostro mondo?...

Eppure si sarà capito dove voglio spingermi, cioè ad affermare che anche la nostra fede nella scienza si basa sempre su una fede metafisica; che anche noi uomini della conoscenza di oggi, noi senza dio e antimetafisici, traiamo sempre il nostro fuoco dall'incendio appiccato da un millennio di fede antica, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone per cui Dio è la verità e la verità è divina... Ma come, se questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino tranne l'errore, la cecità, la menzogna, - se Dio stesso si rivela come la nostra menzogna più lunga?

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

14.

Oggi cinque o sei cervelli cominciano a rendersi conto che anche la fisica è soltanto un'interpretazione e una sistemazione del mondo (secondo noi! se ci è lecito dirlo) e non una spiegazione del mondo; ma nella misura in cui essa si fonda sulla fede nei sensi, essa ha un valore superiore e a lungo andare ne dovrà avere ancora di più, dovrà valere, cioè, come spiegazione. Essa ha a suo vantaggio gli occhi e le dita, essa ha l'apparenza e la tangibilità; ciò esercita un effetto magico su un secolo il cui gusto dominante è plebeo, un effetto di persuasione, di convinzione, si adegua anzi istintivamente al canone di verità del sensualismo che è eternamente popolare.

22.

Mi si conceda, come vecchio filologo che non può rinunciare alla malizia, di mettere il dito su certi cattivi metodi interpretativi: ma quella «normativa della natura», di cui voi fisici parlate con tanto orgoglio, come se... ‑ esiste solo grazie alla vostra interpretazione e alla vostra cattiva «filosofia», ‑ essa non è un dato di fatto, non è un «testo», piuttosto solo un riadattamento ingenuo‑umanitario e una distorsione, con i quali voi venite incontro a sufficienza agli istinti democratici dell'anima moderna! «Ovunque uguaglianza di fronte alla legge, ‑ la natura non ha a questo proposito nulla di diverso e nulla di migliore di noi»: un garbato espediente mentale, con il quale l'ostilità plebea contro tutto quanto è privilegiato e sovrano, si maschera ancora una volta come un secondo e più raffinato ateismo. «Ni dieu, ni maître» ‑ anche voi lo volete: e perciò «viva la legge di natura»! non è vero? Ma, come si è detto, questa è interpretazione, non testo; e potrebbe arrivare qualcuno che, con intenzione e metodo interpretativo opposto sapesse leggere nella medesima natura e in relazione ai medesimi fenomeni, proprio la imposizione di una potenza dispoticamente spregiudicata e impietosa ‑ un interprete che in tal modo vi mettesse davanti agli occhi l'assolutezza senza eccezioni di ogni «volontà di potenza», in modo tale che quasi ogni parola e addirittura la parola «tirannia» finirebbe per sembrare inutilizzabile, oppure già una fiacca e blanda metafora ‑ troppo umana; e tuttavia finirebbe con ciò per sostenere di questo mondo la stessa cosa che sostenete voi, e cioè che il suo corso è «necessario» e «calcolabile», ma non perché in esso dominano le leggi, ma perché le leggi vi mancano assolutamente e ogni potenza in ogni momento giunge alla sua estrema conseguenza.

23.

Tutta quanta la psicologia è rimasta impigliata fino ad oggi in pregiudizi e timori morali; essa non ha osato scendere nel profondo. Considerarla, come io la considero, quale morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: è un punto che finora nessuno ha neppure sfiorato con il pensiero: per quanto almeno è consentito riconoscere, in ciò che è stato scritto fino ad ora, un sintomo di ciò che fino ad ora è stato taciuto. La forza dei pregiudizi morali è penetrata profondamente nel mondo più intellettuale, in apparenza più freddo e spregiudicato e, come è ovvio, in modo dannoso, limitante, accecante, falsante.

Una vera fisiopsicologia deve lottare contro inconsapevoli resistenze nel cuore del ricercatore, essa ha contro di sé il «cuore»: già una dottrina della reciproca dipendenza dei «buoni» e dei «cattivi» istinti provoca, in quanto immoralità più raffinata, in una coscienza ancora forte e rigorosa, pena e disgusto, tanto più una teoria secondo la quale tutti gli istinti buoni derivano da quelli cattivi. Posto però che qualcuno consideri proprio le passioni dell'odio, dell'invidia, dell'avidità, del desiderio di potere, come passioni che condizionano la vita, come qualcosa che deve essere presente nell'economia complessiva della vita come fondamentale e sostanziale, che quindi deve essere ulteriormente potenziato, se è vero che anche la vita deve essere ulteriormente potenziata, egli soffrirebbe di un tale orientamento del suo giudizio come del mal di mare.

E tuttavia anche quest'ipotesi è ben lontana dall'essere la più penosa e la più inusitata in questo immane e ancor quasi nuovo regno di pericolose nozioni e in realtà ci sono cento buoni motivi per restarne lontani, se si può! - d'altra parte una volta che ci siamo spinti fin qui con la nostra nave, ebbene! avanti! stringendo ora coraggiosamente i denti! gli occhi aperti! la mano ferma sulla barra! navighiamo sicuri oltre la morale, calpestiamo, annientiamo forse con ciò i nostri ultimi residui di moralità, mentre facciamo e osiamo il nostro viaggio laggiù ma che peso abbiamo noi!

Mai prima d'ora si è dischiuso a viaggiatori temerari e ad avventurieri un più profondo mondo della conoscenza: e lo psicologo, che in tal modo «compie il sacrificio» che non è il sacrificio dell'intelletto, al contrario! avrà almeno il diritto di pretendere che la psicologia venga nuovamente riconosciuta come signora delle scienze, per il servizio e la preparazione della quale le altre scienze esistono. Poiché la psicologia è ormai di nuovo la via che conduce ai problemi fondamentali.

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Scorribande di un inattuale

15.

Casistica di psicologi. Quello è un conoscitore di uomini: a che scopo in realtà egli studia gli uomini? Vuole arraffare piccoli vantaggi su di loro, o anche grandi, è un politico!... Anche quell'altro è un conoscitore di uomini: e voi dite che non vuole nulla per sé, che è un grande «impersonale». Guardate meglio! Forse vuole addirittura un vantaggio anche peggiore: sentirsi superiore agli uomini, poterli guardare dall'alto, non confondersi più con loro. Questo «impersonale» è uno che disprezza gli uomini: e quel primo è la specie più umana, nonostante ogni apparenza. Egli almeno si mette alla pari, almeno ci si mette dentro...